Quando al copy chiediamo una strategia di comunicazione empatica.
“Prima di giudicare qualcuno, cammina per tre lune nei suoi mocassini” – recita il proverbio indiano – ma camminare nelle scarpe altrui può essere un buon workout anche prima di scrivere o comunicare con qualcuno.
Copywriting empatico. Sto parlando proprio a te.
Il tema di questo post è il copywriting empatico. L’etichetta può suonare come una tecnica di marketing – magari perfino nuova – invece è la base di qualunque comunicazione capace di mettere in relazione due individui, ancor prima di brand e target. Perciò, anche se non scrivete per mestiere, vale la pena di dedicarci una riflessione.
Qualche esempio per chiarire: pensa alla collega che ti parla solo di figli – e tu non ne hai. Alla raffica di foto delle vacanze, quando avevi chiesto solo un’opinione sull’hotel. All’amica innamorata che ti parla a punti esclamativi, quando per te si prepara una noiosa settimana d’inferno.
Per essere ascoltato, devo perlomeno raccontare cose che interessino davvero il mio interlocutore, sintonizzarmi sul suo stato d’animo, rassicurarlo sulle sue paure e rispondere alle obiezioni che, senza parole, starà sollevando rispetto alle mie argomentazioni.
Ogni volta che scrivo, che parlo, che cerco di entrare in relazione (“relazione”, è la parola chiave, e qui sta tutta la differenza) con qualcuno, devo cercare di mettermi nei suoi panni e comunicare per lui, non per me. Errore in cui spesso incorrono i brand e le persone.
Parlare per se stessi e di se stessi e abbastanza irresistibile, ma il buon copywriter non ci casca.
Occorre invece mettersi nei panni cognitivi dell’interlocutore: qual è il suo punto di vista, cosa vuole sapere, che informazioni gli servono? Quali strumenti ha per capirmi: sto usando il suo lessico, conosce le premesse o sto dando troppo per scontato? Ma anche, e soprattutto, devo sintonizzarmi sul suo stato emotivo: che timori ha? Come si sente davvero?
In questa connessione, anche emotiva, risiede la differenza tra l’apparire autentici oppure no.
Non convincerò un potenziale cliente ad acquistare il mio prodotto perché lo presento con sensazionalismo, ho più chance se dimostro di conoscere i suoi bisogni, se dimostro di vederlo davvero, di appartenere e conoscere il suo mondo, con tutte le debolezze connesse, e fornire risposte ai timori, non slogan lanciati nel cielo dell’advertising.
Sentirsi visto e riconosciuto da chi ci sta parlando è un’ottima premessa per concedergli il nostro ascolto. Ritrovare in chi ci parla la consapevolezza dei problemi che ci muovono, e sentire che condivide le nostre difficoltà ce lo farà percepire più vicino, autentico e sincero e saremo disposti a riconoscere un valore maggiore alle sue opinioni e ai suoi consigli.
Il copywriter empatico dedica sempre tempo all’ascolto e cerca di raccogliere più informazioni possibili sul suo interlocutore e sul contesto in cui riceverà il messaggio. Rinuncia al mantra “siamo i migliori” per “siamo umani quanto te, sappiamo cosa ti preoccupa e possiamo rispondere ad una tua esigenza”.
Dai supereroi dell’advertising, al superpotere dell’autenticità e dell’empatia. Concretamente, cosa significa?
Per esempio, rileggo questo post e immagino che il mio lettore pensi “tutto interessante, ma dammi delle regole per applicarlo, questo copywriting empatico”. Allora io scriverò che regole per cambiare punto di vista non ce ne sono – è un sentiero, non un decalogo – oppure che, se regole ci sono, io non le conosco. Un’ammissione di vulnerabilità che farà capire al mio lettore che non pretendo di assurgere a guru e non voglio vendergli niente. Gli scriverò anche che non è facile – perché anche lui, come me, sente che talvolta dal dire al fare…
Gli scriverò che spesso questo approccio funziona e aiuta i brand a raccontare i propri prodotti e ad essere ascoltati con più efficacia. E terminerò, magari, coinvolgendo il lettore in una domanda diretta.
In Bianetwork crediamo in questo approccio; ti abbiamo convinto? 😉