Nessuno escluso.
C’è stato un tempo, non molto lontano, in cui la comunicazione pubblicitaria era totalmente aspirazionale: modelle filiformi che vestivano taglie improbabili, famiglie sempre felici, con bambini perfettamente assortiti maschio/femmina, occhiali per la presbiopia pubblicizzati da modelli under 30, cascate di maschi alfa – rigorosamente di razza bianca – impegnati con successo in attività di seduzione eterosessuale.
Alla base era il concetto che, per favorire i consumi, andasse acceso il desiderio – che nasce da una percezione di mancanza e incompletezza – attraverso l’identificazione con modelli pressoché irraggiungibili. Dove i consumi sono di massa, l’individualità non rappresenta un gran valore.
Poi lentamente il paradigma culturale è cambiato, – determinante è stata la rete che ha dato visibilità ai singoli e alle minoranze, il marketing ha scoperto di avere la coda lunga, e l’individualità e l’unicità hanno acquistato valore e riconoscimento.
Ai brand conveniva “riconoscere” e includere tutti i propri consumatori, dando valore alla diversità, non solo per logiche commerciali, ma anche per mostrarsi empatici, sintonizzati con le nuove sensibilità e contribuire a un processo inclusivo per la costruzione di una società più accogliente e libera.
E così anche settori esclusivi per eccellenza, come la fashion industry, hanno annusato il trend (è nella loro natura, del resto) e fatto dell’inclusività il nuovo lusso. Resterà nei libri di marketing la rivoluzione Gucci, ad esempio, con le sue modelle “fuori canone”, queer o dalla bellezza atipica.
Perché un’azienda deve essere inclusiva nella sua comunicazione? Per ragioni che hanno a che fare sia col business, sia con l’etica e la responsabilità sociale.
- Perché non esiste il “consumatore tipo”; i consumatori sono differenti e devono essere riconosciuti e valorizzati.
- Perché un marketing inclusivo crea fiducia ed empatia nei clienti e fra i dipendenti dell’azienda.
- Perché le aziende hanno una responsabilità sociale. La diversità è davvero un valore, arricchisce la società e ogni gruppo di lavoro, le aziende perciò possono contribuire a promuoverla, evitando gli stereotipi e usando un linguaggio culturalmente sensibile.
Ma è tutto vero?
Gli effetti della rivoluzione culturale in atto sembrano essere sotto i nostri occhi: fluidità di genere in prima serata nel festival canoro nazional popolare, serie tv in costume che, in omaggio al color-blind casting, narrano di un’aristocrazia di colore, che sarà pure un falso storico ma fa molto cool, revisioni dei classici politically correct al limite del ridicolo… eppure è evidente che nella sostanza c’è ancora molto da fare e ci sono tabù tuttora ben lontani da una rappresentazione mainstream.
Finché l’inclusività sarà “moda”, finché vedremo tanto washing, finto attivismo a solo scopo di commerciale, tanti international days a sensibilizzazione per questo o per quello, finché l’inclusione non smetterà di fare parlare, allora sapremo di essere in mezzo al guado di una rivoluzione ancora da compiere.