Contenuti e commercio: fare branding offline è importante tanto quanto farlo online. Già vent’anni anni fa, nel 2001, la Harvard Graduate School of Design, sotto la direzione dell’architetto Rem Koolhaas, pubblicò un’indagine su spazi, tecniche e ideologie incorporate nelle esperienze di vendita al dettaglio.
Dai mercati rurali, ai portici, poi nei centri commerciali e negli aeroporti, la tesi sostenne che lo shopping influenza profondamente l’esperienza della città, rimodellando le nostre concezioni di cosa sia lo spazio pubblico.
La ricerca ebbe un impatto su Koolhaas, tanto da riverberare già sul progetto del flagship store di Prada di New York.
Osservando lo store nel suo insieme, si percepisce chiaramente la volontà di creare un’esperienza, piuttosto che riempire lo spazio con il prodotto.
Enormi murales alle pareti e una rampa inclinata fino al livello del seminterrato (che poteva fungere anche da posti a sedere), trasformarono il negozio in uno spazio per eventi. I camerini, inoltre, furono dotati di schermi impostati tecnologicamente per far in modo che i clienti potessero fare check-out autonomamente.
Vent’anni dopo, le teorie dell’architetto si dimostrano premonitrici: un intero settore è infatti sorto, battezzato come “design dell’esperienza”.
Tutti i brand hanno sempre visto i loro negozi fisici come destinazioni, punti di arrivo per il loro target; ma poiché sempre più acquisti stanno oggi migrando verso l’online (forse ancora di più in un mondo post-pandemia), il concetto alla base si è evoluto: un negozio non è più semplicemente un luogo di commercio, ma l’habitat naturale dei contenuti di marca, dove ogni superficie diventa potenziale veicolo comunicativo che ne promuove la narrativa. Esso sviluppa una serie di codici e storie che rendono il marchio personale.
Un negozio fisico può fare molte cose che un sito web non può: fornire un posto dove toccare con mano i materiali, provare gli articoli e sperimentare il prodotto in un contesto reale, ma ciò che sanno fare meglio è creare uno spazio in cui i fidelizzati alla marca possano ritrovarsi. In altri termini: ordini un prodotto online, ma visiti il negozio per fare pellegrinaggio verso il brand.
Se lo shopping online ci offre la comodità, il negozio ci offre una condivisa/condivisibile esperienza d’acquisto paragonabile a coinvolgenti contenuti sponsorizzati: opere di branding totale, opere d’arte capitaliste e templi a sé stanti.
Anche se la terminologia religiosa potrebbe sembrare estrema, sviscerando l’argomento si scopre quanto non sia così assurda.
I brand hanno sempre cercato di creare una fedeltà di tipo religioso, suggerendo sentimenti di appartenenza e il linguaggio della comunità. I social media hanno poi colmato il divario marchio-cliente e i negozi ricreano quella sensazione nel mondo reale.
Proprio come noi utenti segnaliamo i nostri valori, interessi e desideri sui social media, così i brand si comportano all’interno degli store.
Non è una coincidenza che l’ascesa dei marchi diretti al consumatore sia parallela all’ascesa di Instagram: è naturale che i due inizino a influenzarsi a vicenda. Non dovrebbe sorprendere, quindi, che sempre più agenzie di branding lavorino a progetti di commercial and retail space design, sostituendosi ai più tradizionali studi di architettura. Come il negozio Prada, questi spazi commerciali vendono un’idea tanto quanto un prodotto.
Oltre ai propri prodotti, molti negozi ora dispongono di corner per il caffè, barrette di cereali, o di succhi di frutta che incoraggiano la permanenza e l’incontro. Prodotti attentamente curati che esplicitano i valori di marca e spazi vivaci che sono progettati per essere “instagrammabili” e ricondivisi sui social. Dopo aver visitato il tempio del marchio, è più probabile che tu vada avanti e evangelizzi. Alla fine della fiera, proprio come sui social media, il vero contenuto è l’utente.